Scommetto che quello che sento io, partecipando al Laboratorio di italiano, lo provano anche gli altri volontari degli altri laboratori di Antoniano. Ne ho parlato spesso con loro, per lo più giovani antropologi e aspiranti insegnanti, appena laureati o ancora studenti.
Quello che incontri nella sala di accoglienza è l’ “Altro”, con la sua storia che a volte ti sorprende, altre volte sbigottisce, spesso insegna.
L’ho capito subito quando
ho conosciuto John, il cui vero nome era quasi incomprensibile per noi italiani. Era un uomo robusto proveniente dal Congo. O meglio dalla Repubblica del Congo, come lui stesso era solito puntualizzare, con la consapevolezza di chi non dà per scontate libertà e democrazia.
“Gli africani vengono in Italia per il lavoro, ma prima ancora perché ci sono i diritti”, mi rivelò John un pomeriggio, tra un esercizio e l’altro di grammatica, lasciandomi a riflettere.
Ripensandoci, ancora oggi, lo ricordo bene con addosso i colori caldi della sua tradizione. “Mi vesto così quando è freddo”, mi confessò un giorno, ammettendo di faticare ad abituarsi al nostro inverno.
Nei lunghi mesi passati assieme, John non aveva mai perso il suo buon umore, malgrado tutto. Malgrado il lavoro che non trovava. Malgrado la famiglia lontana. Malgrado dovesse riprendere gli studi daccapo, lui che aveva già una laurea e più di quarant’anni di età. Ed io ogni volta mi chiedevo come facesse.
Un pomeriggio però lo vidi profondamente rattristato
“Devo lasciare l’Italia”, si confidò, rassegnato. “Vado in Finlandia, lì è più facile trovare lavoro”. Ed è così che, dopo poco, intraprese un nuovo viaggio, questa volta “malgrado” il freddo che non sopportava e con cui, invece, ben presto avrebbe dovuto imparare a fare i conti. Più tardi seppi che era stato assunto come autista di autobus e che il suo lavoro gli piaceva moltissimo.
“Ora va tutto bene” – mi disse un giorno per telefono – “Grazie a Dio, le cose cambiano”. E in quel preciso istante io compresi la ragione della sua serenità.